Entrare all'Octavius significa lasciarsi andare a un viaggio sensoriale per certi aspetti unico nel suo genere, a cominciare proprio dall’ ambiente, sintesi perfetta di un’eleganza di forma e di modi a tutto tondo, che non ammette deroghe. Con i suoi legni scuri e di pregio, le luci sapientemente distribuite e volutamente soffuse, i grandi oblò, l’Octavius richiama in tutto e per tutto una di quelle piccole ed esclusive navi da crociera degli anni ’30 e ripropone, a tratti, molte di quelle atmosfere che hanno reso celebre la serie televisiva “Poirot”.
La cura nei confronti del cliente, già al suo ingresso, è da manuale; ma è quando ti siedi e vuoi ordinare che si avverte in modo netto la differenza rispetto a tanti altri (e altrettanto noti) locali della città. E non mi riferisco alla qualità premium delle circa 1050 etichette disponibili, o alle tecniche di miscelazione dei bartender, perché in un locale del genere le si danno per scontate. Quello di cui parlo, è qualcosa di ancora più esclusivo… è l’imprinting stesso del suo Bar Manager, Francesco Cione (miglior bartender italiano 2015), fatto di passione, entusiasmo, dedizione, e quell’ insegnamento –semplice- appreso dai suoi maestri della “vecchia scuola”, per cui l’unica cosa che conta davvero al bancone, è trovare la giusta empatia con il cliente e metterlo a suo agio.
All’Octavius, i bartender non hanno manie di protagonismo, e nemmeno credono di essere i depositari delle verità assolute della mixology, sono piuttosto degli abili sarti che, grazie al loro modo speciale di rapportarsi con il cliente, riescono a costruire un cocktail fatto su misura per i suoi gusti, come il mio peat-stop (rielaborazione dell’Old Fashioned, e scritto proprio così in omaggio agli ingredienti) di cui conservo ancora il ricordo.
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